23.11.08

STORIA ITALIANA .. abbastanza recente..

da Giorgiamada .........
Quando la realta' supera.....un certo livello



Quando la realtà supera un certo livello, l’essere umano si rifugia altrove. …

Sarà perché sta arrivando una cometa verde( che sta pure perdendo pezzi dalla coda, ora una cometa senza coda sembrerebbe un ossimoro ...
Beh torniamo alla razionalità: Allora sul fronte occidentale sono state fatte due dichiarazioni di guerra all'umanità.
Una l'ha fatta Maroni: Con i clandestini bisogna essere cattivi, l'altra Berlusconi: a Eluana ci penso io.
Brrrrrrrrrr.
Dalle parole ai fatti.
La lega ha imposto (, nel pacchetto sicurezza (testo) l'obbligo per i medici di denunciare i clandestini che faranno ricorso alle strutture sanitarie pubbliche (prima era vietato farlo), alcuni, per smorzare la gravità della cosa, dicono che la denuncia è facoltativa ma il sindaco/senatore leghista Sandro Mazzatorta ieri a Otto e mezzo ha spiegato, senza se e senza ma, che il medico che non denunciasse un reato (visto che il pacchetto introduce il reato di clandestinità) sarebbe perseguibile per legge.
Certo c’è anche chi protesta ( Repubblica e QUI, Manifesto).
Protesta Gino Srada, la Cei, la Cgil, l'Ordine dei medici, i cittadini attraverso i sondaggi (Repubblica, Corriere) che a grande maggioranza si dichiarano contrari e naturalmente i migranti (video).
In molti ospedali fra cui quelli toscani, i clandestini potevano, ultimamente, farsi curare senza bisogno di permesso di lavoro e di soggiorno. Ora non possono più, cioè possono, ma solo per poi essere denunciati e rimpatriati.

Vendola governatore della regione Puglia impone il segreto ai medici.

La cosa assurda è che lo stesso governo che fa questa legge è quello che ostacola l'aborto, facendo editti un giorno si e l'altro pure.

Ma quale donna clandestina deciderà di tenersi un bambino se poi il parto (che non potrà certo fare per strada) le costerà il rimpatrio? Senza parlare poi degli immigrati affetti da malattie infettive che non si faranno curare, per paura, rischiando di infettare tutti compreso gli stessi leghisti.

Insomma questa legge è un vero e proprio crimine contro l'umanità. Ma lo stesso governo che mette mano ad una legge kattiva come questa interviene invece per salvare Luana tenuta in vita artificialmente da 17 anni.


Non voglio discutere su una cosa così delicata, non l'ho fatto finora e non lo farò neppure adesso, però che il governo risolva il tutto a suon di decreti è disumano, allucinante e anche oltremodo cialtrone.

Sembra che sia stato il cardinale Bertone a chiedere a Berlusconi di fare qualcosa ...beh già che c'era poteva, con lo stesso impegno, far si che non votassero la clausola che rende i medici spie e delatori.


Rodotà dice che la legge sull'obbligo della denuncia da parte dei medici è anticostituzionale.



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Titti Calcagno alle ore 14.42 del 02 febbraio


Il libro "ROM, UN POPOLO" Edizione Punto Rosso - Milano - 2008
Il libro raccoglie scritti di Carlo Cuomo, Vittorio Agnoletto,
Giorgio Bezzecchi e tanti altri ancora.

Per l'italiano medio, "normale", anche se democratico e di sinistra,
la parola "zingaro", la vista nel proprio quartiere di una famiglia
di zingari (la roulotte, i moltissimi bambini, le donne con le
gonne lunghe) provocano inquietudine, diffidenza, qualche ribrezzo.
Nessun'altra minoranza etnica suscita un così forte e totale sentimento di "sgradevolezza", nessuna è altrettanto misconosciuta, ignorata.
Noi, i "gagé" - i non zingari - non sappiamo niente di queste comunità,
di questo piccolo popolo che vive tra di noi da più di cinque secoli.
Ma crediamo di sapere.

Al posto della conoscenza mettiamo un mito e crediamo che il mito sia conoscenza.
"Sono molti, moltissimi - pensano i "gagé" - dilagano,
ci invadono; sono vagabondi senza arte né parte, nomadi disordinati;
sono pigri e ladri;

Laura Picchetti alle ore 14.45 del 02 febbraio

Manca la conclusione..per intanto ti dico che gli zingari hanno
sempre rubato e sono sempre vissuti di espedienti.
Potrei solo raccontarti alcuni fatti che mi sono avvenuti...
e che ancora ricordo....
mi dispiace ma io sono per la integrazione: o integrazione o lontani da me.
e questo non vale solo per gli zingari.....ma anche per tutti i diversi nel nostro paese,in primis..gli ebrei praticanti.

Titti Calcagno alle ore 14.47 del 02 febbraio

Maltrattano e sfruttano i loro bambini; non sono una realtà etnica,
sono una realtà malavitosa; sono infidi, violenti, pericolosi;
sono - come recitava il titolo di un vecchio film sui borgatari
romani - "sporchi, brutti e cattivi".

Nel nostro immaginario collettivo questo mito negativo convive,
a sprazzi - complice un po' di mediocre cinema e mediocrissima
letteratura e tanti ambigui nostri desideri - con un mito
diverso, opposto, che esprime fascinazione:

"Sono liberi, 'figli del vento'; sono musicisti
straordinari; le loro donne sono voluttuose e
i loro uomini fieramente virili; non si piegano
alle false lusinghe della civiltà e del progresso;
loro sì, che sono felici!"

La diversità basta non vederla com'è, basta esorcizzarla
nei sogni delle nostre nevrosi, delle nostre paure,
dei nostri ambigui desideri
(dal saggio di Carlo Cuomo,
contenuto nel libro "Rom, un popolo")

Laura Picchetti alle ore 14.48 del 02 febbraio
questo lo sta dicendo il libro .
Io dico solo che, non integrandosi,
non possono fare a meno di delinquere.
Invece .gli ebrei alle volte ,data la
loro cultura media dovuta ad una valida e bem coordinata
educazione..credono di essere superiori a noi, ..poveri italiani
e cosi' facendo si autoisolano e in alcuni casi tendono a voler
dominare.....
Due facce della stessa medaglia...



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Annuncio fin d’ora che continuerò a informare i lettori
senza tacere nulla di quel che so.
Continuerò a pubblicare, anche testualmente, per riassunto, nel contenuto o come mi gira, tutto cio' che riuscirò a procurarmi, come ritengo giusto e doveroso al servizio dei cittadini.
Farò disobbedienza civile a questa legge illiberale e liberticida.
A costo di finire in galera, di pagare multe, di essere licenziato.
Al primo processo che subirò, chiederò al giudice di eccepire dinanzi alla Consulta e alla Corte europea la illegittimità della nuova legge rispetto all’articolo 21 della Costituzione e all’articolo 10 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e le libertà fondamentali
(“Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione.
Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche…”,
con possibili restrizioni solo in caso di notizie“riservate” o dannose per la sicurezza e la reputazione).




Mi auguro che altri colleghi si autodenuncino preventivamente insieme a me e che la Federazione della Stampa, l’Unione Cronisti, l’associazione Articolo21, oltre ai lettori, ci sostengano in questa battaglia di libertà. Disobbedienti per informare. Arrestateci tutti.



---------MARCO TRAVAGLIO---------


---LABORIOSO TRAVAGLIO---










DEMOGRAZIA ALLA SGARBI

ATTENZIONE:
LE PAROLE SONO PIETRE


PER VELTRONI: L'OTTO LUGLIO



Paolo Barnard mette Report sotto accusa
pubblicato: giovedì 14 febbraio 2008 da Notuno in: TG / Informazione RaiTre Politica RAI
Paolo Barnard, ex collaboratore di Report, in questi giorni è impegnato in una personale battaglia per diffondere il più possibile il testo di una “lettera/appello” nella quale accusa la trasmissione, la Rai e segnatamente Milena Gabanelli di averlo abbandonato di fronte ad una causa civile che sta affrontando come conseguenza diretta di un’inchiesta da lui realizzata per il programma di Raitre nel 2001. La vicenda di cui vi parliamo è particolarmente complessa, cerchiamo di andare con ordine.

L’11 ottobre del 2001 va in onda all’interno della puntata di Report l’inchiesta di Barnard dal titolo “Little Pharma & Big Pharma“. Nel suo lavoro il giornalista raccontava la diffusione della pratica del comparaggio, un reato punito dalla legge, che sarebbe stato commesso da alcune case farmaceutiche allo scopo di ottenere un numero maggiore di prescrizioni dei loro farmaci attraverso la corruzione dei medici di base.

Il giornalista continua la sua collaborazione con Report fino al 2003 ed in quel periodo realizza altre inchieste che andranno regolarmente in onda. A quel punto il rapporto si interrompe per ragioni “personali” sulle quali è impossibile indagare, fatto sta che il freelance alcuni anni dopo sarà protagonista di alcune prese di posizione nelle quali contesterà apertamente tutto quel “movimento” animato da Beppe Grillo e che vede fra i suoi più illustri esponenti Marco Travaglio e in qualche modo la stessa Milena Gabanelli.



censura preventiva MILENA GABANELLI

Senza Report e Milena Gabanelli (e l'opera di centinaia di magistrati che sanno fare il loro lavoro) saremmo lo Zimbabwe.
Chiediamoci poi quante persone leggono, ascoltano e COMPRENDONO questi messaggi. Oggi c'è una situazione nuova.
Nessuno può più dare la colpa ai fantasmi.
Non ci sono più i comunisti a cui dare colpe.
Gli oppositori sono tutti non violenti perchè pensanti e dialoganti.
Ognuno si dovrà assumere le proprie responsabilità.
W Report e i grandi giornalisti con la schiena dritta !
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..non è matto!





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SIGNORAGGIO





ultime dalla terra dei fuochi




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Enzo Biagi

È il simbolo vivente del giornalismo televisivo. Il volto più noto dell'informazione alla Rai, dove del resto ha lavorato per 42 anni. Poi il diktat bulgaro, addì 18 aprile 2002, prontamente eseguito dall'apposito Agostino Saccà.
Da allora Il Fatto, che da otto anni accompagnava gli italiani dopo il Tg1, il programma più visto della tv, che raccoglieva ogni sera quasi un terzo del pubblico, è scomparso. E, con esso, il suo conduttore.
Ultima puntata, il 31 maggio 2002.

Poi un giorno il presidente del Consiglio Berlusconi parlò dalla Bulgaria: «uso criminoso della televisione pubblica».
La sentenza irrevocabile di condanna fu emessa così, su due piedi, senza processo né possibilità di difesa.
L'apposito consiglio di amministrazione, da lui stesso nominato tramite i presidenti delle Camere Pera e Casini, e l'apposito direttore generale Agostino Saccà, da lui stesso imposto, s'incaricarono di eseguirla.
Per la verità il premier, nella sua magnanimità, aveva lasciato aperto uno spiraglio: «Certo, se cambiano...».
Biagi non cambiò, non si pentì, non prestò giuramento di fedeltà al regime.
Come pure Santoro e Luttazzi.
E il discorso si chiuse lì.
DA WIKIPEDIA


BENNI


TESTIMONIANZE RECENTI


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Storytelling: come la destra ha saputo raccontare il mondo
Ottobre 18, 2008 ·
E'un’ intervista allo scrittore Christian Salmon che analizza la funzione del “raccontare il mondo” nella costruzione dell’egemonia culturale.T.C.

«Le grandi narrazioni che hanno segnato la storia dell’umanità, da Omero a Tolstoj e da Sofocle a Shakespeare, raccontavano miti universali e trasmettevano le lezioni delle generazioni passate, lezioni di saggezza, frutto dell’esperienza accumulata. Lo storytelling percorre il cammino in senso inverso: incolla sulla realtà racconti artificiali, blocca gli scambi, satura lo spazio simbolico di sceneggiati e di stories. Non racconta l’esperienza del passato, ma disegna i comportamenti, orienta i flussi di emozioni, sincronizza la loro circolazione. Lontano da questi “percorsi del riconscimento” che Paul Ricoeur decifrava nell’attività narrativa, lo storytelling costruisce ingranaggi narrativi seguendo i quali gli individui sono portati a identificarsi in certi modelli e a conformarsi a determinati standard».
Fondatore, nel 1993, del Parlamento internazionale degli scrittori, lui stesso scrittore, membro del Centre de Recherches sur les Arts et le Langage del Cnrs di Parigi e collaboratore di Le Monde , proprio su questi temi, Christian Salmon ha pubblicato lo scorso anno in Francia un volume che Fazi propone ora al pubblico italiano, Storytelling, la fabbrica delle storie (pp. 216, euro 18,00): un viaggio nel nuovo cuore della politica, l’arte di raccontare storie trasformata dall’industria della comunicazione e dal nuovo capitalismo globale nella maggiore risorsa a disposizione della Rivoluzione conservatrice che attraversa il mondo e che ha fatto degli Stati Uniti il proprio laboratorio.

Storytelling? Prima di tutto cerchiamo di definire con chiarezza di cosa si sta parlando e quanto ha a che fare con la politica.
Lo storytelling, a lungo considerato come una forma di comunicazione riservata ai bambini, sta conoscendo negli Stati Uniti un successo sorprendente dalla metà degli anni Novanta. E’ una forma di discorso che si impone in tutti i settori della società e trascende i confini politici, culturali o professionali, realizzando quello che i sociologi hanno chiamato il narrative turn, poi paragonato all’ingresso in una nuova epoca, l’”epoca narrativa”. Il concetto stesso di narrazione ha iniziato la sua deriva da un continente scientifico all’altro; dalla psicologia all’educazione, dalle scienze sociali a quelle politiche, dalla ricerca medica alla giurisprudenza, alla teologia o alle scienze cognitive. E’ attraverso questa deviazione che lo storytelling è potuto apparire come una tecnica di comunicazione, di controllo e di potere. Quanto alla politica, il quadro è chiaro: gli uomini politici e i loro consiglieri cercano di attrarre l’attenzione del pubblico, strutturando il loro messaggio nella forma della storia, del racconto, del feuilleton. Non solo. Si tratta di utilizzare tutte le tecniche proprie alla narrativa, non rinunciando a fare ricorso ai colpi di scena, alla suspence, all’introduzione costante di nuovi elementi pur di mantenere inalterata la tensione del racconto. Si tratta di strutturare il proprio discorso nella forma della storia, come accade del resto già per il marketing e per l’industria della comunicazione.

Quale il periodo a cui si può far risalire l’irruzione di questo stile del marketing nel linguaggio della politica?
Credo che questo momento si possa situare intorno al 1992, con la campagna elettorale di Bill Clinton negli Stati Uniti e l’inizio dell’ascesa di Tony Blair in Gran Bretagna. Alastair Campbell, il giornalista politico che sarebbe divenuto portavoce del leader del New Labour e che incarna un po’ questa innovazione sulla scena inglese, lo ha spiegato molto bene dicendo che nell’epoca delle tv via cavo, delle news 24 ore su 24 e dell’esplosione di internet nessun politico può pensare di limitare i propri interventi a spazi privilegiati, come il telegiornale delle otto di sera. Il paesaggio mediatico era completamente cambiato e, spiegava Campbell, i politici dovevano necessariamente imporre i propri temi in modo altrettanto nuovo: creando la notizia intorno a sé. Vale a dire lo stile proprio agli operatori del marketing che si misurano con la concorrenza cercando in tutti i modi di attrarre l’attenzione sui propri prodotti. Certo, il terreno era già stato lavorato anche prima degli anni Novanta, in particolare dall’equipe di Ronald Reagan che nel decennio precedente, come già alla fine degli anni Settanta, si era data l’obiettivo esplicito di “controllare i media” attraverso una costruzione quotidiana di avvenimenti e di uno scenario proprio agli interventi del Presidente. Mancava però il pieno dispiegarsi delle nuove forme di comunicazione che è arrivato solo in seguito, in particolare con lo sviluppo di internet.

A partire dagli Stati Uniti, sembra che siano stati gli interpreti della Rivoluzione conservatrice degli ultimi decenni ad appropriarsi della forma narrativa applicata alla politica, fino a farne il cuore della loro offensiva. Perché?
Per far passare la svolta del neoliberismo, con il suo carico di costi sociali, tagli e smantellamento del sistema di welfare, la rivoluzione conservatrice incarnata al suo debutto da figure quali quelle di Reagan o di Thatcher, ha dovuto in qualche modo ingannare l’opinione pubblica, riuscendo a trasformare quelli che sociologicamente non potevano che essere elettori dei partiti di sinistra, in elettori delle nuove destre. Negli Stati Uniti i repubblicani hanno intuito subito l’importanza della posta in gioco, investendo milioni di dollari nella battaglia delle idee attraverso il finanziamento dei think thank intellettuali. E’ in quel periodo che Reagan parlava della “welfare queen”, della donna che si era comprata una cadillac con i soldi del sussidio di disoccupazione. Si trattava ovviamente di una “bufala” che è però rimasta celebre nel dibattito pubblico americano. I conservatori volevano far passare il messaggio che la solidarietà e l’assistenza erano quasi dei sinonimi di abuso, corruzione, truffa, uso privato dei fondi pubblici: per ottenere questo risultato puntavano a “criminalizzare” le radici stesse dello Stato sociale, culturali e sociologiche prima ancora che politiche. Lo storytelling è diventato così il cuore della loro offensiva, perché dovevano inventare una nuova narrazione della realtà costruita intorno alle loro proposte politiche e non più alle condizioni di vita presenti davvero nella società. E’ questo il modello che ha continuato a imporsi anche con Bush, Sarkozy e lo stesso Berlusconi nel vostro paese: la trasformazione della politica in fiction per far sì che i poveri votino per i ricchi. Si tratta di una chiave narrativa che, per quanto detto, interessa soprattutto i politici di destra, anche se la sinistra liberale sembra ispirarsi sempre più spesso al medesimo modello, come illustrato ampiamente sia da Blair che da Veltroni.

Lo storytelling sembra così imporsi nell’epoca che è stata presentata come quella della “fine della storia”. I racconti ispirati ai metodi del marketing hanno preso il posto delle grandi narrazioni collettive che hanno attraversato il Novecento?
In qualche misura credo proprio di sì. Stiamo parlando di un fenomeno che si situa alla convergenza di diversi elementi: la trasformazione dei media, l’irrompere della Rivoluzione conservatrice e, per l’appunto, il clima internazionale del dopo ‘89 caratterizzato da quella che François Leotard ha definito come «la fine delle grandi narrazioni di emancipazione». Nell’epoca della fine delle ideologie le piccole storie create dallo storytelling hanno un sicuro impatto sulla società: le false risposte che vengono offerte ai problemi reali vissuti ogni giorno da ciascuno di noi si affermano proprio in un contesto sociale privato ormai di ogni interpretazione ideologica.

Negli Stati Uniti con l’11 settembre questo scenario ha subito un’ulteriore drammatica accellerazione: lo stile narrativo applicato alla politica sembra essersi trasformato in una sorta di war movies. Cosa ne pensa?
In effetti, volendo riassumere in una formula quanto accaduto, si potrebbe dire che si è passati improvvisamente, dopo l’attacco terroristico subito dall’America, dallo storytelling ideologico a quello di propaganda, condito con tutte le menzogne sulle armi di distruzione di massa che sarebbero state in possesso di Saddam Hussein. Nel mio libro cito una conversazione tra Karl Rove, il principale consulente strategico delle due campagne presidenziali vinte da George W. Bush, e Ron Suskind, un giornalista del Wall Street Journal autore di varie inchieste sulla comunicazione della Casa Bianca, da cui emerge come i repubblicani non abbiano costruito solo una retorica intorno alla guerra, ma una vera e propria strategia politica. Rove scherza con Suskind definendolo spregiativamente come un “membro della comunità del reale” e gli dice: «Dopo l’11 settembre è tutto cambiato, noi, gli Stati Uniti, siamo diventati un Impero e con le nostre azioni creiamo la nostra realtà». Non siamo perciò di fronte agli strumenti più o meno radicali di una campagna elettorale o al tentativo di influenzare i media, bensì a un progetto che vuole ridefinire completamente la stessa narrazione del mondo e arruolare in questa battaglia, centrata sullo scontro tra “il bene” e “il male”, l’America e i suoi nemici, quanti operano nell’industria culturale, dai giornalisti ai registi cinematografici.

Lei definisce l’11 settembre come «la fine del racconto americano», contrapponendo lo storytelling della guerra alla grande tradizione narrativa degli Stati Uniti. Vale a dire?
Gilles Deleuze pensava che la superiorità della letteratura americana consistesse in un certo rapporto col reale, con lo spazio, con l’idea di frontiera e di conquista. Questa costruzione narrativa della nazione è stata rafforzata ancora dall’afflusso degli immigrati nel corso del XX secolo. Per molto tempo l’America ha rappresentato, più che una destinazione sulla carta celebrata dalle immagini di Hollywood, un “orizzonte narrativo” verso il quale accorrevano gli immigrati da tutto il mondo; un paese dove tutto era possibile e che offriva a ciascuno una pagina bianca, la possibilità di cominciarvi una vita nuova: allo stesso tempo nazione e narrazione. L’immigrazione era vista in modo positivo, le frontiere avevano un contorno esaltante, mutevole; l’America si presentava a un tempo come una promessa e come un mistero. Con l’11 settembre tutto ciò è finito: le tradizionali nozioni di identità, immigrazione e frontiere sono state completamente stravolte. L’identità americana è stata rivista in termini religiosi dallo stesso Bush; la frontiera ha smesso di essere un luogo di passaggio e di scambi per trasformarsi in una trappola per sans papier e clandestini che sono diventati i simboli con cui si è riassunto il nuovo discorso pubblico sull’immigrazione. Una nuova America che ha deciso di rinunciare a ciò che c’era di più affascinante nella sua narrazione collettiva ha così preso forma, lasciando spazio solo allo storytelling di guerra popolato da tutti i suoi nemici e pericoli: l’immagine di un paese in guerra con il mondo.

Tra poche settimane gli Stati Uniti avranno un nuovo presidente: fin qui McCain sembra aver insistito su temi “narrativi” molto vicini a quelli utilizzati da Bush, Obama sembra invece essere andato in un’altra direzione. Dal suo osservatorio come li giudica?
In questo caso mi concentro sul candidato democratico. Una delle cose più interessanti della campagna elettorale di Barak Obama risiede proprio nello sforzo semantico che sta facendo, cercando di aggirare e superare il codice narrativo che si è imposto negli ultimi anni negli Stati Uniti. Obama ha un approccio aperto, privilegia il dialogo sul piano internazionale e l’incontro tra le culture, sembra guardare con attenzione alla realtà. Del resto la stessa biografia di Obama ci parla di un uomo globale, di un figlio della mondializzazione delle culture. La sua storia si è scritta in qualche modo nella “periferia” dell’America, in paesi pericolosi come l’Indonesia, con un padre africano. Dunque un’identità aperta e meticcia che credo possa parlare a quella parte dell’America che è rimasta orfana di un racconto collettivo che parta dalla realtà e non sia prigioniero delle bugie del marketing e della guerra.

Intervista a cura di Emanuela del Frate

http://www.liberazione.it del 18/10/2008

Segnalato su Lettere al Direttore



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